WHAT LEGITIMATES PHOTOGRAPHY?
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Paper published with Flusserstudies.net (2015)About
This paper describes the meeting between Flusser and the Italian artist and theorist Franco Vaccari in 1985 and 1987, and focuses on the philosophical, epistemological, and ethical basis of photography. The text is linked to the interview with Angelo Schwarz and the pictures at the end of this issue (Flusser in Italy). “What legitimates photography?” was a question proposed in the context of the symposium Torino Fotografia 1985. Today, the question is asked to address the “encounter” between Vilém Flusser and the artist Franco Vaccari. The latter is followed by a magnifying lens looking at the documentation of the real meeting between the two in 1985, but without the intention of finding the “proof.” While for Flusser, the invention of photography points to the beginning of a Post-Historical era in which he examines concepts of freedom and responsibility by combining the notion of the apparatus with the experience of exile, Vaccari activates the apparatus, and at the same time, lets his work be activated by it. In this way, the responsibility belongs to the apparatus itself, and the concept of freedom becomes a modus vivendi in which the photographer uses the apparatus to create meanings and “has a chance to discover what he didn’t know.” This process is weaved in the essay with interventions by Roberta Valtorta, who offers a socio-political overview of the photography context in Italy, and Franco Vaccari, who carefully thinks about an open answer for what can legitimize photography, as well as a related essay by Angelo Schwarz, the original author of the question which gives the title to this essay. The question of the legitimization of photography unravels through a methodology that explores what photography “becomes” by calling attention to the “subjects” of photography—or, as Ariella Azoulay defined, “the citizens of photography.”
CHE COSA LEGITTIMA LA FOTOGRAFIA?
La produzione di un incontro tra Vilém Flusser e Franco Vaccari
Valentina Bonizzi
Emportés par la foule qui nous traîne, nous entraîne…
Trainati dalla folla che ci unisce, che ci separa…
Edith Piaf
Introduzione
“Che cosa legittima la fotografia?” Questa era una delle domande proposte ai relatori, tra cui filosofi, scienziati e fotografi, invitati a uno dei seminari tenutisi nel contesto del Festival Torino Fotografia nel 1985.
Perché riproporre una domanda a distanza di trent’anni? La Scienza propone che uno degli elementi fondamentali per formulare una ‘legge’ è la costanza della ripetizione di un fenomeno. Nelle prossime pagine ci si attiene a questa connotazione e il significato di “legittimazione” verrà esplorato attraverso una proposta che riguarda un incontro avvenuto tra Vilém Flusser e l’artista Franco Vaccari. Si prende in esame la natura del “contratto” che ci sposa all’osservazione del mondo, i mezzi che creiamo per comprenderlo, abitarlo, condividerlo, e la costanza con la quale ci poniamo queste domande.
L’inseguimento della ricostruzione sul come si è svolto l’incontro tra Flusser e Vaccari, del quale non abbiamo tracce documentative o un seguito tangibile, è un modo per esplorare che il contratto può rappresentare la memoria di un momento nel tempo anche in assenza del suo ricordo narrativo, immersa in una frammentata ricostruzione di testimonianze e documenti.
In una prima fase si cercherà di contestualizzare la presenza di Vilém Flusser in Italia, a partire da una panoramica della fotografia italiana a lui contemporanea – in quanto fenomeno sociale. Questa traiettoria verrà introdotta da un contributo della critica di fotografia e storica dell’arte Roberta Valtorta, Direttrice del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (MI), accompagnato da un breve riferimento alla ricerca storica della Valtorta sull’incerta collocazione della fotografia in Italia.
Vilém Flusser e Franco Vaccari si sono conosciuti in un hotel a Torino, la sera del 19 Giugno del 1985. Di questo incontro purtroppo non esistono tracce, registrazioni o testimoni, solo il ricordo di Vaccari; un incontro ripetutosi nell’87 a Milano al Centro S. Fedele e organizzato da Roberta Valtorta, che ne era testimone, ma anche qui, non esistono registrazioni o documenti, e Vaccari non lo ricorda.
La metodologia di questa ricerca è appunto narrata sull’inseguimento delle tracce degli incontri fra i due dei quali esistono solo memorie.
Questo mi ha permesso, non solo di iniziare una mappatura delle persone che hanno lavorato con Flusser in Italia, ma anche di capire, attraverso documenti e testimonianze, che concentrandosi sullo sviluppo ad oggi del lavoro di Flusser e Vaccari si può immaginare un seguito della conversazione tra i due. Il motivo per il quale ho svolto questa ricerca è stata la risposta di Vaccari alla domanda: ‘cosa vi siete detti tu e Flusser quando vi siete conosciuti?’ e la risposta è stata ‘non ricordo esattamente, ma sono certo del fatto che si era prodotto un incontro’. La risposta di Vaccari mi ha fatto riflettere sul processo della memoria, mi ha ispirato l’attivazione di un dialogo dal punto di vista del lavoro individuale di Flusser e Vaccari prodotto e reinterpretato nel tempo, e non un confronto con la natura concettuale del loro pensiero nel momento in cui l’hanno espresso. Prendendo in considerazione la metodologia adottata oggi da scrittori, artisti, filosofi, curatori, ispirata dal pensiero di Vilém Flusser, insieme allo sviluppo del lavoro di Vaccari in quarant’anni, si può considerare come il lavoro dei due può rispondere oggi alla domanda: “che cosa legittima la fotografia?”.
Un intervento di Angelo Schwarz è connesso a questo saggio e grazie al quale è stato possibile ricostruire momenti chiave della presenza di Flusser in Italia, in quanto collaboratore, amico e corrispondente di Flusser tra il 1984 e il 1991, nonché autore della domanda che dona il titolo a questo scritto e che Schwarz propose da curatore del seminario svoltosi durante Torino Fotografia ‘85.
Vaccari fa più volte riferimento a Flusser quando parla di apparato. Angelo Schwarz ha inserito entrambi i pensatori nello stesso contesto ma in modo parallelo, una volta alla conferenza di Torino Fotografia ‘85, e successivamente nel ’91, intervistando entrambi a distanza di due giorni. Schwarz non li ha mai messi in conversazione, ma i due hanno discusso comunque, grazie al fatto che stavano alloggiando nello stesso hotel. Le conversazioni avvenute però – forse per un glitch nella comunicazione o forse perché ‘così sono andate le cose’ – non ha avuto seguito.
Flusser segna l’inizio di una narrativa post-storica con l’invenzione della fotografia, proponendo i concetti di libertà e responsabilità per sviluppare la nozione di apparatus e dell’esperienza dell’esilio e la riflessione sul legame, o processo contrattuale, che abbiamo con l’altro, esprimendolo nella scrittura che nella sua metodologia di approccio ai soggetti di ricerca ha un ruolo ermeneutico costante, sia nella forma sia nei contenuti, del suo pensiero. Vaccari, nella sua opera – in particolare nella serie di Esposizioni in tempo reale – aziona l’apparato e lascia che il lavoro sia svolto da quest’ultimo. In questo modo la ‘responsabilità’ sembra restare all’interno dell’apparato stesso e il concetto di libertà diviene un modus vivendi nel quale il ruolo dell’autore esce di scena, e i significati vengono creati solo collettivamente, così che l’artista – in questo caso l’attivatore, o come direbbe Flusser il “funzionario” – ha la possibilità di scoprire “quello che non sapeva”(1). Partendo da questo concetto, si propone di considerare l’inserimento del ‘soggetto’ fotografico – come rappresentazione di una necessità – in quanto ciò che attiva l’input del processo, in modo tale da ri-democratizzare il ‘rappresentato’ coronando il senso di responsabilità sull’apparato proposto in diverso modo da Flusser e Vaccari.
Infine il saggio propone la visione dell’artista Franco Vaccari, che risponde oggi alla domanda “che cosa legittima la fotografia?”, mettendo ancora in scena i valori che oggi continuano a preoccupare anche chi, con dedizione e da tutto il mondo, si occupa del pensiero di Flusser. Questo saggio vuole costituire uno studio iniziale sull’argomento, con l’auspicio che possa venire sviluppato in futuro da artisti e ricercatori.
Si ringraziano Franco Vaccari, Roberta Valtorta, Angelo Schwarz, Luca Panaro e il Vilém Flusser Archive a Berlino, per aver contribuito con generosità a questa ricerca e il lavoro impiegato per questa pubblicazione.
Walter Benjamin, in L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica – pubblicato per la prima volta nel 1936 ma tradotto in italiano solo nel 1966 – si riferisce al problema della perdita dell’aurea nell’opera d’arte con l’avvento dell’immagine fotografica e la sua riproducibilità. La fotografia a differenza della riproduzione della scrittura, o della musica, ha la capacità di riprodurre il “visibile”, fenomeno che ha cambiato la percezione del tempo e dello spazio, velocizzandone le dinamiche narrative. Nella lettura di Benjamin questo fenomeno è legato alla fruizione dell’opera fino ad allora destinata solo a un ceto specifico della società. L’hic et nunc dell’esperienza artistica scompare e così con questa inizia a espandersi a fino ad allora impensabili angoli della società, favorendo così la “formulazione di esigenze rivoluzionarie nella politica culturale” (Benjamin, 1936).
Nella recente pubblicazione The Practice of Light, Sean Cubitt propone una ricostruzione di economia politica fondata sull’estetica visiva:
“…Sono i secoli di lotte sul come ordinare la mediazione all’interno di forme comunicative e relegare queste tecnologie comunicative che a turno formano e confinano il nostro senso del mondo. L’estetica ha a che fare con la lotta per il controllo sui sensi umani, e questo sull’ordine della comunicazione, che è anche l’ordine dei nostri governi, società, culture ed economie”(2).
Sulla base di questa linea di pensiero è stata riproposta a Roberta Valtorta (Direttrice del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, Milano) la domanda ‘che cosa legittima la fotografia?’ in modo da introdurre il discorso sull’estetica visiva dell’immagine tecnica all’interno di una panoramica del contesto socio-economico italiano.
VB: In che contesto la domanda ‘Che cosa legittima la fotografia?’ ha esercitato durante la metà degli anni Ottanta?
RV: Penso che la domanda posta a metà anni Ottanta, e in ambito italiano riguardasse specificamente il riconoscimento della fotografia come arte, ambito non ancora conquistato. Arte nel senso di forma d’immagine culturalmente complessa.
Nella cultura italiana la complessità e la profondità della fotografia hanno faticato a ottenere riconoscimento per più motivi: la tardiva industrializzazione del paese e dunque il lentissimo maturare di una “civiltà delle macchine” che potesse comprendere e valorizzare anche un’arte “fatta a macchina”; il perdurare di una cultura di stampo sostanzialmente elitario che a lungo ha separato le arti maggiori dalla arti minori, le arti manuali da quelle meccaniche; il peso enorme della grande storia dell’arte italiana, nei confronti della quale la fotografia è rimasta a lungo considerata arte applicata, forma visiva in funzione ancillare nei riguardi delle altre discipline; il peso, specificamente, del pensiero crociano, che ha negato all’arte la possibilità di un rapporto con la realtà, la scienza, la storia, elementi “inquinanti” nei riguardi della sua purezza; l’assenza dell’insegnamento della fotografia nelle scuole di vario ordine e grado (fino all’università), nelle quali arte e scienza sono rimaste tradizionalmente separate. In un ambiente di questo genere, è proprio dagli anni Settanta (sotto la spinta di grandi cambiamenti socio-culturali e di grandi desideri-utopie di rinnovamento, e anche grazie alla vitalità delle neoavanguardie) e poi in modo più allargato negli anni Ottanta che matura la coscienza che la fotografia può presentare una complessità paragonabile a quella di altre arti considerate maggiori.”(3)
Quando la Valtorta menziona l’“Arte in senso di forma d’immagine culturalmente complessa” si riferisce alle origini e il riconoscimento della funzione percettiva avvenuta con la riproducibilità dell’immagine tecnica, insieme al riconoscimento della scossa sociale conseguente al suo sviluppo in Italia. La Valtorta, quindi, traccia un percorso storico della funzione della fotografia nella società italiana tenendo conto della scena economica politica del paese in un quadro internazionale, senza mai separarla dalla politica creata dal mezzo fotografico.
Nel saggio L’incerta collocazione della fotografia italiana (2009), la storica della fotografia esegue un meticoloso lavoro di ricostruzione storica dagli albori della presenza della fotografia in Italia. Partendo dalla questione ‘che cosa legittima la fotografia?’ è interessante fare un approfondimento per osservare i momenti in cui lo Stato definisce il valore da attribuire alla fotografia.
“Lo Stato italiano quindi, formatosi nel 1861, istituisce nel 1892 il Gabinetto Fotografico Nazionale in seno al Ministero per la Pubblica Istruzione, Direzione generale delle antichità e belle arti, al quale, con un regio decreto del 1907, affida il materiale fotografico prodotto durante la realizzazione del ‘catalogo delle cose di interesse storico, archeologico e artistico…inizia cosi la storia del problematico rapporto Stato Italiano-fotografia, all’interno del quale questa è considerata molto a lungo, prevalentemente come uno strumento di catalogazione e di documentazione, e solo in tempi recentissimi anche come una forma espressiva compiuta: la legge che accoglie le ‘fotografie, con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico, storico, archeologico, o demo etno-antropologico’ porta la data 1999. Siamo alla fine del XX secolo”(4).
Il caso dell’Italia è quindi molto chiaro: lo sviluppo politico economico del paese, ritardato da una lenta industrializzazione, hanno portato a un tardo riconoscimento della fotografia come mezzo facente parte di un linguaggio artistico, che era di natura diversa prima della sua invenzione. Infatti, dal suo arrivo in Italia nel 1830 al riconoscimento di un valore artistico da parte della legge passa un secolo e mezzo.
Il secondo periodo storico importante da considerare nella nostra analisi sono gli anni Settanta quando esisteva, dice Valtorta: “la spinta di grandi cambiamenti socio-culturali e di grandi desideri-utopie di rinnovamento”5. Anni che hanno stimolato pensatori, artisti e studiosi a interrogarsi su una narrativa che stava decisamente portando a un ripensamento delle scale di valori della società. Scrive sempre la Valtorta, citando Lea Vergine:
“ …‘Col ‘68 i valori che sembravano scontati vacillarono, la situazione parve violentemente scossa… Tutti scoprimmo che avanguardia non significava sostituire alle forme (o alle formule) di ieri quelle di oggi, ma alle idee correnti di oggi progetti per un domani cambiato.’ Segue la Valtorta: ‘…la nuova progettualità della fotografia è anche sorretta dall’interesse crescente che studiosi di varie discipline le rivolgono conferendole legittimità, e in un certo senso, necessità. Infatti, all’intensificarsi degli studi di carattere generale sui mass media e le teorie semiologiche, antropologiche, sociologiche, fa seguito tra anni ‘60 e ‘70, una pioggia di importanti contributi sulla fotografia.’(6)
La delineazione storica di specifiche dinamiche politico economiche, l’avvento della fotografia nello stesso periodo della volontà di unificare la Penisola, il fascismo, l’emigrazione, il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, sono elementi fondamentali per comprendere il ruolo della fotografia nel nostro paese. Ho ritenuto quindi utile prendere in considerazione alcuni elementi della ricerca della Valtorta per meglio capire come si può collocare oggi il pensiero di Flusser in Italia. In questo modo si potrà considerare con maggiore consapevolezza i passi da fare per riconoscere alcune lacune nel campo della fotografia – madre dell’immagine tecnica, oggi inseparabile dal linguaggio della rete e i new media – in modo da essere in grado di sostenere la proposta di nuove strade per la costruzione di future proposte.
Traendo spunto dal contesto chiaramente spiegato dalla Valtorta nell’introduzione alla terza edizione italiana di Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari, si può trarre una lista di alcuni testi fondamentali sull’argomento e la loro traduzione all’italiano:
La ricerca sull’incontro tra Flusser e Vaccari avviene con processo che prende in esame l’archivio ma anche l’oblio, in modo da avere l’adeguata documentazione per immaginare ciò che è accaduto, ma senza sapere come e cosa.
Nel 2011 in un incontro con Vaccari a Modena, discuto con l’artista la relazione del suo pensiero con quello di Flusser, così Vaccari mi racconta che i due si sono conosciuti una sera e avevano passato la notte discutendo animatamente in un hotel, forse a Torino. Non ricordava cosa si sono detti, ma certamente Vaccari dice: ‘si era prodotto un incontro’(7), ma – dice – non si sono mai più visti ne sentiti.
Nel 2013, nell’archivio di Flusser all’Universität der Künste a Berlino, trovo il programma dell’evento, conservato da Flusser, nel quale lui e Vaccari potrebbero essersi incontrati: “Torino Fotografia 1985”.
FIG 1, 2, 3 Depliant della “Biennale internazionale Torino Fotografia ‘85” , che si è Tenuta a Torino dal 15 giugno al 7 Luglio 1985, 60x21cm. Archivio Istituto di Scienze delle Immagini & della Comunicazione.
Flusser aveva, infatti, tenuto una presentazione il 17 giugno, Vaccari il 19.
All’archivio di Flusser trovo anche una lettera indirizzata a Bruno Boveri, editore di Agorà, con il quale Flusser ha pubblicato la traduzione italiana di Per una filosofia della fotografia nel 1987. In un passaggio della lettera Flusser chiede a Boveri l’indirizzo postale dell’artista italiano Franco Vaccari e della critica Roberta Valtorta, aggiungendo poi una lettera per la Valtorta, chiedendo molto gentilmente a Boveri di consegnarla(8).
Scrivo subito a Vaccari comunicandogli la mia piccola scoperta, e anche alla Valtorta mandandole una fotografia della lettera di Flusser a lei indirizzata, chiedendole se per caso avesse conservato la sua risposta, o se ne avesse un ricordo. La Valtorta risponde dicendo che stava ricevendo quella lettera per la prima volta in quel momento, venticinque anni più tardi. È il 1987 quando la lettera viene scritta, Flusser muore nel ‘91, la corrispondenza tra i due purtroppo non ha avuto seguito. Trovo in seguito la lettera di Boveri a Flusser con l’indirizzo di Vaccari e la Valtorta e constato che nella lettera di Flusser a quest’ultima ammette di aver perso l’indirizzo, possibilmente ritrovato in seguito nella raccolta d’archivio. Decido così di andare a Milano e incontrare Roberta Valtorta, che mi racconta di aver invitato Flusser al Centro San Fedele a Milano nell’87 per presentare Per una filosofia della fotografia. Essendo una critica ancora giovane, aveva deciso di invitare Vaccari per sostenere la discussione con Flusser. Quindi inizio a dubitare se Vaccari si ricordi l’incontro di Torino o lo confonde con quello di Milano, dato che dai documenti dell’archivio di Flusser ho potuto constatare che a Torino i due presentavano in due giorni separati. Purtroppo al Centro San Fedele non ci sono registrazioni dell’incontro e Vaccari non ricorda.
Nel novembre 2014 riesco allora a rintracciare Angelo Schwarz, che molto gentilmente si presta a ricostruire il suo incontro con Flusser. Schwarz trova anche nel suo archivio personale delle fotografie dell’evento Torino Fotografia ‘85 ritraenti se stesso, Flusser e altri relatori. L’unico a mancare all’appello è Vaccari.
Schwarz motiva questa assenza dalle foto spiegandomi che in quel periodo c’erano solo due treni tra Modena (da cui proveniva Vaccari) e Torino, uno al mattino e uno la sera. Vaccari presentava alle 18:30 dell’ultimo giorno e il suo treno arrivava proprio a quell’ora, quando i fotografi che documentavano l’evento se ne erano andati(9).
FIG 5: da sinistra: Il prof. Maurizio Mamiani, prof. Angelo Shwarz e il prof. Vilém Flusser al tavolo dell’incontro conferenza dibattito dedicato al tema “Fotografia & Scienza” nell’ambito della manifestazione Biennale Internazionale Torino Fotografia ’85. Photo by Mario Rebeschini. Archivio Istituto Scienze delle Immagini e della Comunicazione.
Non esiste, quindi, alcuna traccia dell’incontro tra i due. Schwarz però sostiene di aver pagato l’hotel a Flusser per tre notti. Quindi anche se questi presentava il 17 e Vaccari il 19, l’ultima sera, il filosofo e l’artista hanno discusso proprio nell’hotel, dove Schwarz aveva alloggiato entrambi e che Vaccari ricorda come sede della loro lunga discussione notturna. Non esiste documentazione, registrazione, dell’incontro tra i due, a parte la certezza da parte di Vaccari che: “si era prodotto un incontro”.
Da qui si può proporre una conversazione tra Vilém Flusser e Franco Vaccari inserendo il ‘soggetto’ in prima linea. Nello stesso modo in cui Vaccari non ricorda i dettagli dell’incontro con Flusser anche in questo caso saremo disarmati di informazioni e dettagli andando incontro al ‘soggetto’, con la sola possibilità di riconoscere la produzione dell’incontro con quest’ultimo.
I concetti di responsabilità e libertà sono assiduamente espressi – in direzioni e metodologie diverse – nel lavoro di Flusser e Vaccari. L’importanza che Flusser attribuisce alla scrittura non è inferiore a quella che dà alla sua lettura di cos’è l’amicizia, tanto quanto per Vaccari il tipo di utilizzo del mezzo fotografico e filmico è importante quanto il legame tra la natura della materia e la scala di valori sulla quale costruiamo le nostre vite. Considerando l’impossibilità di una singola e statica definizione di “fotografia”, al di fuori della sua prima accezione fisico/chimica (scrittura con la luce), la legittimazione o il contratto della la fotografia potrebbe avvicinarsi al contratto della memoria che imprime o cancella parti che produce o riproduce durante il suo processo. Se pensiamo quindi di dare importanza alla relazione tra i contraenti della fotografia con costanza, il contratto che incarna quest’ultima non avrebbe un linguaggio burocratico ma poetico, indefinito nell’interpretazione e infinito nell’essenza.
La conversazione avvenuta tra Flusser e Vaccari si può immaginare oggi considerando due elementi che i due hanno in comune, responsabilità e libertà, e due elementi che invece interagiscono separatamente, codificazione di significato e feedback. Questi ultimi possono essere messi in dialogo osservando il ruolo del soggetto fotografico pensato ed in seguito rappresentato.
Partendo da Per una filosofia della fotografia, Flusser teorizza il processo di formazione di immagini tecniche in questo modo:
“Il flusso del significato sembra entrare nel complesso da un lato ‘input’ e per uscire poi dall’altro ‘output’, lo svolgimento stesso, ciò che avviene all’interno del suo complesso, rimane nascosto: si tratta dunque di un black box. La codifica delle immagini tecniche avviene però all’interno di questo black box, e, di conseguenza, ogni critica delle immagini tecniche deve mirare a chiarirne il contenuto. Fino a quando non disporremo di una critica del genere, rimarremo, in materia di immagini tecniche, analfabeti.”(10)
Quello che Flusser definisce “apparato” è fondamentale nel lavoro di Vaccari, che lo cita in un saggio scritto a proposito dell’artista Joachim Schmidt, analizzando il suo uso costante (trentennale) di fotografie vernacolari: “questa è la sfida all’universo fotografico, la sfida per il fotografo: come opporsi al diluvio di fotografie ridondanti con fotografie veramente informative”(11).
Da questo punto si potrebbe pensare che i due rientrino in una simile punto di vista sull’immagine tecnica. Entrambi riconoscono lo spazio opaco all’interno del processo di formazione dell’immagine tecnica, ridando un “senso” alla narrativa creata da questa. Una lettura di questo tipo conduce in seguito alla ricerca di libertà, possibile con la dominazione dell’apparato in modo tale da non subirlo. Ma c’è una differenza nella metodologia di entrambi, scrive Vaccari in una email inviatami il 4.28.2011:
“Flusser, da filosofo del soggetto, difende disperatamente la libertà dell’uomo nei confronti dell’apparecchio fotografico; vale a dire , Flusser considera la pratica fotografica etica quando le intenzioni del fotografo riescono a dominare l’automaticità dell’apparecchio fotografico, mentre io, provocatoriamente, esorto a trovare il valore liberatorio della pratica fotografica consapevole delle determinazioni dell’apparecchio fotografico, anche automatico, o no?”(12).
Considerando il lavoro di Vaccari Esposizione in tempo reale n.4: lasciate su queste pareti una traccia del vostro passaggio, proposto dall’artista alla Biennale di Venezia nel 1972, si “produce un incontro” attraverso una macchina e un photobooth, che con la partecipazione e il pagamento della macchina (Photobooth) da parte delle persone, produce documenti (fototessere) di questo incontro ‘meccanico’, che vengono a loro volta utilizzati nello spazio espositivo.
Scrive Vaccari:
“…chi voleva partecipare doveva introdurre la moneta come in qualsiasi Photomatic per strada. Questo rappresentava per me un elemento assolutamente fondamentale del progetto, quello che doveva garantire la possibilità di sfuggire al limbo degli pseudoeventi. Solo l’esistenza di uno scambio reale poteva dare realtà a quanto sarebbe successo in quell’ambiente….gli ambienti dove opero devono essere luoghi dove le cose accadono realmente e il dopo è sempre diverso dal prima…(13)”
L’elemento del pagamento nella regia di Vaccari in Esposizioni in Tempo Reale n.4 Lasciate su queste pareti una traccia del vostro passaggio, ci porta ancora all’importanza del contratto, in questo caso è azionato dall’artista nel bloccare l’illusione che nella società contemporanea si possa ottenere tutto a costo zero, e in seguito, srotolando un’azione liberatoria, collettiva, e non immediata nella creazione del suo significato.
La raccolta delle fototessere disposte sulle pareti della sala espositiva, permetterà ai visitatori di entrare in quel preciso spazio-tempo, vedere delle miniature, centinaia di volti, espressioni, esseri che senza la presenza del fotografo, si sono ri-tratti e auto-esposti.
FIG , 6, 7, 8, 9, 10: Exhibition in progress, Exhibition in Real Time, 1972, Franco Vaccari. Courtesy: the artist, and P420, Bologna.
Volti con espressioni di tutti i tipi, età diverse, belli, brutti, buoni, cattivi, insomma chi passava poteva lasciare “una traccia”.
Dalla dinamica che spiega Flusser sembra che il processo di significazione sia non lineare solo nel momento in cui il significato è codificato nello spazio opaco del black box. L’“opporsi al diluvio” come dice Flusser è presente nel lavoro di Vaccari nel modo in cui l’input crea una strategia di contenimento, una resistenza che non si “oppone a” ma “succede durante”.
La domanda che mi pongo quindi è: che rapporto esiste tra noi e queste rappresentazioni che ancora oggi vengono esposte, disposte con attenzione ed incorniciate? Sia Flusser che Vaccari questionano ‘che cos’è fotografia’, in questo caso invece ci si può chiedere, ‘che cosa diventa la fotografia?’
Recentemente durante le mie ricerche per un progetto filmico, ho intervistato Diletta Capaldi, una signora che abita a Selvone, una frazione di un paesino in Molise, dove ha passato tutta la sua vita. Mentre Diletta mi parlava della guerra e degli stravolgimenti causati dal passaggio del fronte in quella zona di montagna, mi racconta di un fatto che le è successo settant’anni fa. Camminando giù per la montagna, era stata fermata da alcuni soldati che la volevano fotografare. Lei impaurita acconsentì, ma chiese se era possibile avere la fotografia. Un soldato le rispose negativamente così Diletta capì che avrebbero portato quell’immagine in altri paesi, ma non nel suo. Solo un dubbio le rimane e continua a porselo dal 1943: “che uso ne abbiano fatto, questo non lo so”.
Diletta ha capito che la sua rappresentazione non apparteneva a lei, ma sarebbe stata errante, anche se per settant’anni ha continuato a chiedersi cosa ne è stato.
Tornando al lavoro di Vaccari e al ruolo del partecipante al processo, Nicoletta Leonardi scrive:
“Chi è coinvolto nell’operazione, improvvisamente emancipato dallo status di semplice osservatore, è invitato a interrogarsi sulla propria identità sociale e a ridefinire il rapporto fra esperienza individuale e spazio pubblico….scrive Vaccari nell’85: “le esposizioni in tempo reale hanno come elemento caratterizzante la possibilità di retroazione” (e cioè del feedback)”(14).
La consapevolezza del “rapporto individuale e spazio pubblico” fondamentale nell’analisi del processo di svolgimento dell’opera, di cui parla la Leonardi, presenta diversi punti di interesse se si pensa all’interrogazione sull’esistenza di uno spazio che può essere ancora definito “privato” nel ventunesimo secolo. Sicuramente la riflessione avviene – com’è avvenuta per Diletta – ma è certo che l’apparente spazio intimo del photobooth è falso, perché la natura riproducibile della fotografia sovverte l’esperienza del privato, mettendone quindi in discussione anche la sua funzione pubblica.
Consapevole del fatto che all’artista ‘non era interessato tanto agli aspetti formali delle immagini quanto allo svolgimento autonomo del processo della loro produzione’ anch’egli riconosce il valore estetico e statico che definisce legata ‘all’estetica dei grandi numeri’(15).
Dato che sono passati trentatré anni da quando le fototessere sono state scattate, e trenta da quando c’è stato l’incontro tra Flusser e Vaccari, mi chiedo come risponderebbero insieme a che rapporto abbiamo, oggi, con la rappresentazione fotografica di queste persone, che responsabilità abbiamo su di loro? Considerando il flusso della codificazione del significato nella creazione dell’immagine tecnica è ancora possibile pensare a una non-linearità solo nel passaggio inerente allo spazio opaco del black box? Con l’elemento del feedback, proposto da Vaccari, è forse possibile immaginare una nuova struttura per la creazione del significato delle immagini tecniche che propone Flusser.
In questa direzione vorrei prendere in considerazione il contributo della curatrice, teorica e film-maker Ariella Azoulay con la formulazione del “Contratto Civile della Fotografia”: “il diritto del soggetto rappresentato in relazione alla fotografia è stato estensivamente omesso, e questo deve essere riorganizzato e affermato”(16).
La Azoulay parla dei “cittadini delle fotografie” nel contesto del conflitto israelo-palestinese, che osserva da israeliana resistendo alle modalità prefabbricate di presentazione e ricezione dell’immagine e scegliendo in un certo senso di ‘decolonizzare’ il suo rapporto con queste immagini. Ne trae così una teoria, che non solo esamina e reinterpreta autori come Roland Barthes e Susan Sontag, ma immagina una soluzione per un approccio, che può fornire fruttuosi spunti anche alla nostra analisi: in particolare il “diritto del soggetto”, ritengo possa divenire un elemento importante per una riflessione sul pensiero di Flusser e il lavoro di Vaccari. Entrambi, infatti, scelgono di superare passivamente quello che la macchina offre. La riproducibilità della macchina, della quale ci si abitua, può essere “salvata” se pensiamo che attraverso questa è possibile che avvenga ‘la produzione di un incontro’. Luca Panaro scrive sul lavoro di Vaccari: “l’artista ha sempre favorito l’abbandono al caso, respingendo ogni risultato prevedibile”. Forse per Flusser questo sarebbe stato un possibile segnale di “irresponsabilità”, pur forse apprezzando che l’artista ha riconosciuto la natura opaca dell’apparato.
Personalmente credo che il potenziale del lavoro di Vaccari, se osservato dal punto di vista di quello che – ritengo con fiducia nei confronti del prossimo – ha materialmente prodotto un largo numero di fototessere (6.000 solo alla già menzionata Biennale di Venezia del 1972), ha creato una consapevolezza sul contratto che possiamo assumere in relazione al soggetto della rappresentazione. La scelta quindi starebbe nel porre il soggetto rappresentato in prima linea, e capire, come dice Diletta Capaldi: “che uso ne stiamo facendo”. Tornando ad Ariella Azoulay:
“guardare da spettatori significa realmente ricercare il fenomeno visuale…lo spettatore…cerca di ricostruire una situazione … dalla superficie della fotografia”(17).
Questi concetti si possono collegare a quanto scrive Flusser sul tema dell’amicizia, elemento che considero molto rilevante nel suo pensiero:
“Le relazioni imposte possono diventare libere se riusciamo a trasformarle in scelte. Possiamo trasformare la parentela in amicizia. È questa forse la grande vittoria sul destino: assumerlo per superarlo (non viverlo passivamente)”(18).
Quando Flusser parla di amicizia, intende la complessità delle relazioni interpersonali e della “libertà di scelta”, comprendendo anche quella di assumere una certa condizione in modo tale da trasformarla. A ottobre 2014, presso la Fondazione Morra Greco è stata inaugurata una mostra personale di Vaccari intitolata Rumori Telepatici. Nell’esposizione c’erano, dentro una cornice, alcune delle fototessere raccolte da Vaccari nella serie Photomatic Italia,
FiGURE 11, 12: Exhibition opening, Rumori Telepatici, 2014, Franco Vaccari. Image from: Photomatic d’Italia, 1973-74 Photostrips collage on cardboard and Photostrips. / Courtesy the artist and P420, Bologna.
(commissionata dall’azienda DEDEM di Roma, che fabbricava e ancora fabbrica macchine che producono fototessere) tra Napoli, Salerno, Avellino e Caserta tra il ‘73 e il ‘74 tramite il meccanismo del photobooth.
Le fotografie propose nuovamente nel contesto dell’esposizione alla Fondazione Morra suggeriscono un lato della loro natura che non ha radici, ne fisiche ne concettuali, ma viaggiano sui binari non regolamentati per il tempo che può esser loro dedicato, in relazioni e spazi mai ripetibili. Il contratto con la fotografia, e quindi ciò che la legittima può essere inteso in questo caso errante, ripetitivo nel gesto ma nomade nella disciplina.
Alla domanda ‘che cosa legittima la fotografia?’ Il 30 dicembre 2014, Franco Vaccari risponde:
“Le scoperte permettono di dare risposte a interrogativi che nascono in momenti precisi. Quando il mondo ha cominciato a complicarsi la fotografia, è servita al bisogno di mettere ordine, promettendo di appagare, almeno in parte, le curiosità che stavano esplodendo.
Inizialmente si è cercato di catalogare ogni aspetto del reale – solo che questo bisogno di mettere ordine ha creato un desiderio di conoscenza che è diventato bulimico.
Con la scomparsa delle grandi narrazioni, che presupponevano uno sguardo capace di abbracciarle, sono cominciati ad apparire universi sempre più complessi come sta accadendo oggi per i mondi scoperti nel subatomico e a livello delle nano-strutture. La fotografia, lontano dal sogno di realizzare la grande sintesi, ci sta inducendo a intraprendere viaggi in universi paralleli.
Così la fotografia, da elemento di controllo della molteplicità, fino ad arrivare agli album di famiglia, è diventata lo strumento principe per prendere coscienza di un universo sempre più incontrollabile. È sintomatica l’analogia delle immagini che si ottengono nei grandi acceleratori di particelle dove queste, ritenute una volta semplici e irriducibili, interagendo tra di loro, danno luogo a fuochi d’artificio inaspettati, come se non ci fosse limite. Alla creatività della materia.
Il risultato è che noi viviamo in uno stato di continua attesa del nuovo che non sarebbe però dovuto all’irruzione del caso, ma all’apparizione di nuove strutture di senso fino a quel momento impensabili.
Si fa strada così un nuovo tipo di sensibilità per cui perdiamo interesse per tutta una serie di cose che una volta funzionavano come punti fermi di una vita degna di essere vissuta.
Sarebbe possibile lasciarci ancora emozionare da un film come Casablanca?
Via col vento:
Rossella O’Hara: Che cosa farò senza di te?!
Colonnello: Ma io, francamente, me ne infischio!”
La bulimia del sapere “cose nuove” che spiega Vaccari e la rete di comunicazione senza grammatica che sviluppa Flusser sono apparentemente senza contratti, magiche.
Partendo dalla possibilità di mettere in comunicazione il pensiero di Flusser e Vaccari oggi, si può esaminare più approfonditamente che cos’è il contratto e cosa lo renderà legittimo in quest’epoca, e senza mai distogliere lo sguardo e il pensiero dalla tecnologia, iniziare, come direbbe Vaccari, a disegnare “nuovi valori sui quali dobbiamo fondare una vita degna di essere vissuta”. Dovremmo forse, come sosteneva Lea Vergine, riferendosi agli anni Sessanta, trasformare le idee di oggi in un progetto per un domani cambiato. O ancora come suggerisce la Valtorta agire sul sistema educativo. Dovremmo forse – dice Schwarz – trovare un modo per affrontare i nostri peccati se “usiamo senza sapere”, o usando le parole di Vaccari, trovare dei modi per avvicinarci all’altro con la curiosità di scoprire quello che non si sa. “Ci sono più cose in una scatola chiusa, che in una scatola aperta piena” (Gaston Bachelard, The Poetics of Space), perché possiamo immaginare cosa ci può essere dentro, assumendo quindi che non possiamo sapere, così da superare il destino del visibile e aprire mondi fino ad allora sconosciuti.
In questo saggio si è cercato da un lato di ricostruire le tracce della presenza di Flusser in Italia, e d’altro di formulare una proposta per l’inizio di una futura ricerca, che può essere sviluppata da vari punti di vista, quella della legittimazione della fotografia, e magari l’identificazione di ulteriori incontri tra il lavoro di Vilém Flusser e quello di Franco Vaccari.
La proposta di inserire il soggetto in prima linea, cioè in una fase preliminare di codificazione del significato dell’immagine tecnica come concettualizzata da Flusser, può permettere di ricostituire un flusso circolare di tutti gli elementi determinanti del processo (input, blackbox e output) che in questo caso sono inseriti all’interno di un’osservazione contemporanea del lavoro di Franco Vaccari prodotto nei primi anni ’70. Su questa base si auspica di sviluppare una ricerca che esamina l’importanza della scelta dialogica nella metodologia di Flusser, traendo l’attenzione al soggetto che attiva una comunicazione con la fotografia che si legittima poi nel tempo, con il potenziale di creare, sulla linea di Vaccari, una lettura circolare e partecipatoria della produzione dell’immagine tecnica considerando che cosa diventa, liberando cosi la responsabilità dal solo funzionario (o Flusser lo direbbe ‘l’input’) delle immagini tecniche e proporre una condivisione, uno spazio comune dell’atto fotografico e ciò che rappresenta. Senza mancare d’attenzione rispetto alla sensibilità del singolo, inserendo il ‘rappresentato’ in quanto pre-esistente alla produzione dell’immagine tecnica, ci si svincola da ogni discorso legato all’autorialità o alla responsabilità, in modo da dirigere la legittimazione della fotografia verso la continua e collettiva trasformazione di se stessa, di chi la attiva e chi la abita nel tempo e non solo nel momento della sua produzione. Si può pensare quindi al ‘tempo reale’ in quanto ‘tempo in divenire’, al ‘non autore’ in quanto ‘altri autori’ e ‘responsabilità’ come ‘condivisione’. L’importanza della legittimazione della fotografia è stata sviluppata come resistenza all’interno di una lettura della natura fotografica strettamente legata ad un’analisi concettuale, con la proposta di aggiungere a quest’ultima l‘azione continuativa e propedeutica di un approccio relazionale nel tempo di ciò che rappresenta e legittima, la fotografia.
Tornando alla risposta di Vaccari e alla sua citazione di Via col vento, con la tragica domanda della O’Hara: ‘ma cosa farò senza di te?’ e la risposta “menefreghista” del colonnello ‘francamente me ne infischio!’, si potrebbe continuare attingendo un’altra famosa frase dallo stesso film: “domani, è un altro giorno”, e io aggiungo che se il colonnello “se ne infischia”, sicuramente possiamo trovare un modo, pur essendo sulla soglia della fine, per progettare quello che potremmo avere, invece di reclamare ciò che stiamo, o già da tempo abbiamo, perso.
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(1) Vaccari, F. (1979) Fotografia e Inconscio Tecnologico, terza edizione Torino, Einaudi Editore, p.11
(2) Cubitt, S. The Practice of Light, A Genealogy of Visual Technologies from Prints to Pixels, 2014, MIT Press, p. 10. La traduzione è di chi scrive.
(3) Da una conversazione tra Valentina Bonizzi e Roberta Valtorta, Milano. Dicembre 2014.
(4) Valtorta, R.L’incerta collocazione della fotografia nella cultura italiana, in ‘La cultura italiana’, diretta da Luigi Luca Cavalli Sforza, vol. IX – Musica, spettacolo, fotografia, design, UTET, Torino 2009. p. 16.
(5) Da una conversazione tra Valentina Bonizzi e Roberta Valtorta, Milano, dicembre 2014
(6) Vaccari, F. Fotografia e inconscio tecnologico, (2011, terza edizione, p. XI
(7) Da un’email di Franco Vaccari a Valentina Bonizzi del 4.28.2011
(8) Vilém Flusser, “Letter dated 10.06.1987” Vilém Flusser Archive, Berlin (reference number: Cor_154_GEN_COR_4of42013-04-04 (17))
Angelo Schwarz, “Letter dated 17.11.1987” Vilém Flusser Archive, Berlin (reference number: Cor_152_GEN_COR_2of42013-04-04 (8))
(9) Intervista ad Angelo Schwarz, qui allegata
(10) Flusser, V. Per una filosofia della fotografia, 1987 (seconda edizione), Mondadori editori, Torino
(11) Joachin Shmidt e le fotografie degli altri.
(12) Email di Fraco Vaccari a Valentina Bonizzi del 4.28.2011
(13) Vaccari, F. Fotografia e inconscio tecnologico, p.82
(14) Leonardi, N. Fotografia e Materialità in Italia, Franco Vaccari, Mario Cresci, Guido Guidi, Luigi Ghirri, 2013, Postmedia, Milano
p. 32
(15) Vaccari, F. Fotografia e inconscio tecnologico, p.83
(16) Azoulay, A. The Civil Contract of Photography, (2008) Zone Books, New York p.130, traduzione dell’autore.
(17) Azoulay, A. The Civil Contract of Photography, (2008) Zone Books, New York,p.342
(18) Vilém Flusser, « Lettre datée du 10.03.1975 », Archives Vilém Flusser, Berlin (numéro de référence : Cor_111_MOLES2013-03-26 (5)).